martedì 11 febbraio 2014

La partigiana latinista


Bianca Ceva.
Tradurre è un’arte al femminile


Storia di una donna tra cultura e Liberazione


Adele, Bianca e Umberto Ceva negli anni 1910
L’arte della traduzione non gode del dovuto apprezzamento in Italia. I lettori, già di per sé minoranza, non badano a chi ha tradotto ciò che stanno leggendo; con poche eccezioni, i traduttori non sono famosi. Eppure tradurre è esercizio ineguagliabile di interpretazione di un testo letterario. Questo concetto era ben chiaro a Bianca Ceva, che, a partire da un sessantennio fa, curò una versione italiana di Tacito e di Tito Livio, e che tuttora – grazie alla meritoria collana di classici della Bur, reperibile in ogni libreria – continua a prestare la “voce” ai due grandi storici anche per i lettori dell’ultima generazione. Latinista, docente, preside di liceo, la Ceva (Pavia 1897 - Milano 1982) lavorò con rigore a tre opere tacitiane, gli Annali, l’Agricola e la Germania (la versione apparve nel 1951-52) nonché al racconto liviano della seconda guerra punica (libri XXI-XXX dell’Ab Urbe condita), la cui traduzione, ultimata nel 1979, fu pubblicata postuma nel 1986.

Che l’interpretazione critico-linguistica sia una funzione intrinseca alla personalità dell’interprete è dimostrato proprio dal profilo complessivo della Ceva, dalla sua statura di intellettuale militante, rappresentativa di una minoranza ammirevole di giovani adulti: quella che visse il «lungo viaggio attraverso il fascismo» senza nessun cedimento e pagando prezzi altissimi per difendere la propria libertà morale. La prima tragica prova è imposta alla famiglia Ceva nel 1930, quando il fratello trentenne di Bianca viene arrestato con molti altri (fra cui Ernesto Rossi e Ferruccio Parri) nella retata contro Giustizia e Libertà. Della terribile vicenda di Umberto Ceva, che si tolse la vita in carcere, Bianca presentò una documentata ricostruzione venticinque anni dopo (1930. Retroscena di un dramma, edizioni Ceschina, 1955, ripubblicato dalle edizioni Pontegobbo nel 2010, a 80 anni dai fatti; nel 1956 appariva per Feltrinelli Una spia di regime di Ernesto Rossi, ove si denunciava l’infiltrato dell’Ovra autore della provocazione contro Ceva e i giellini). Nel 1931, a meno di un anno dal sacrificio di Umberto, l’antifascista Bianca Ceva è costretta a lasciare l’insegnamento. Con la sorella Adele e la cognata Elena Ceva Valla dedica il suo impegno all’attività dell’Unione Femminile Nazionale di cui era socia fin dal 1927: una storica associazione di promozione della cultura delle donne, che, sorta a Milano nel 1899, riuscì a preservare spazi di libero pensiero nonostante l’avanzante fascistizzazione.
Opera notevole di Bianca Ceva è un aureo libretto che, in una cinquantina di pagine, delinea l’allucinante ritratto di un’epoca – il ventennio fascista – , la sua atmosfera morale, il trionfo del servilismo, dell’ipocrisia e dell’apparenza, fino allo sfacelo dell’8 settembre. L’opuscolo, intitolato Storia di una passione. 1919-1943 («passione» nel senso di patimento e di accecamento dell’animo) e accompagnato da una lettera di Benedetto Croce, apparve nel 1948 per i tipi di Garzanti: uno scritto davvero “tacitiano”, che scuote il lettore per la potenza della sintesi storica e il vigore tagliente della misurata indignazione. Un testo che la scuola dovrebbe mettere in mano a ogni studente. 
Rimasta in contatto con l’opposizione intellettuale e in particolare con Croce, attiva sostenitrice del Partito d’Azione, dopo il 25 luglio 1943 la Ceva rientra nei ranghi della docenza, che però abbandona di nuovo, di sua volontà, quando all’indomani dell’8 settembre il Nord passa sotto il dominio tedesco. È arrestata nel dicembre ’43; rinchiusa nel carcere di Voghera, in attesa di comparire davanti al tribunale speciale, evade avventurosamente nell’ottobre ’44 con l’aiuto di sua sorella e dei partigiani dell’Oltrepo pavese, ai quali si unisce partecipando alla guerra di Liberazione. Racconterà gli anni 1943-45 nel libro autobiografico Tempo dei vivi (edizioni Ceschina, 1954). Dopo il 25 aprile riprende il suo posto nella scuola e, stretta collaboratrice di Parri, contribuisce alla fondazione dell’Istituto nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia, di cui sarà a lungo segretaria.
Da quel momento, le traduzioni offrono alla studiosa pavese i motivi di una riflessione non certo occasionale sui grandi temi della politica e della libertà. L’ultimo lavoro di Bianca Ceva è il saggio La storia che ritorna, edito nel 1979 a cura della Unione Femminile Nazionale da lei sempre prediletta (al cui archivio, oggi diretto da Ermis Gamba, il nipote Lucio Ceva Valla ha affidato le preziose carte della famiglia). La materia dei libri “annibalici” di Livio suggerisce all’esegeta suggestive analogie fra seconda guerra punica e seconda guerra mondiale: una pace precaria dopo il primo conflitto, sicura premessa per il secondo; l’aggressività di un leader volitivo, Annibale, che come Hitler trascina in guerra un popolo tormentato da frustrazione e voglia di rivincita; Cartagine, come la Germania, pronta ad assecondare il suo condottiero nonostante l’opposizione interna, salvo poi, dopo la disfatta, scaricare su lui solo tutte le colpe; Roma capace inaspettatamente, come l’Inghilterra, di resistere alle prime devastanti sconfitte, e di trovare a poco a poco la via della riscossa, grazie al suo sistema politico-sociale complesso, alla collegialità e al ricambio dei gruppi dirigenti (e qui si avverte il pensiero storico di Gaetano De Sanctis: uno dei docenti universitari – giova ricordarlo – che non prestarono giuramento nel 1931). Ispirata dallo storicismo crociano, la Ceva invoca anche Gramsci per attestare che la storia non è processo deterministico ma prodotto della volontà; e fa giustizia della retorica romaneggiante del regime mussoliniano donando alla Gran Bretagna di Winston Churchill la palma di moderna emula della res publica scipionica. 

Pasquale Martino
«La Gazzetta del Mezzogiorno» 19 aprile 2013

http://www.unionefemminile.it/cosa-facciamo/archivi/bianca-ceva/