giovedì 25 settembre 2014

Bimillenario augusteo 2

Analogie della Storia.
Augusto e la fine del partito popolare



La Storia si ripete. Anche se il variare incessante della sostanza e della forma rende difficile decifrare le analogie. Per esempio, è successo più d’una volta che un movimento politico progressista di portata storica, fallendo il suo obiettivo di cambiamento, abbia generato alla lunga un inedito sistema di conservazione. La Sinistra – si direbbe oggi, semplificando – che finisce col realizzare il compito della Destra. E ciò è avvenuto per una coincidenza tra l’insuccesso dei soggetti chiamati a interpretare quella tendenza storica e la capacità degli avversari di «cambiare tutto per non cambiare niente». Un modello esemplare del fenomeno suddetto si rintraccia nella storia antica, quel vasto complesso di esperienze che grandi scrittori come Tucidide e Machiavelli considerarono una preziosa lezione di politica. 
A metà del II secolo a.C. fu lanciata una sfida ambiziosa che aveva come posta in gioco il potere sociale e istituzionale nello Stato più importante del Mediterraneo: Roma repubblicana. Il popolo contro il senato, i nullatenenti contro i grandi proprietari terrieri.  Sotto la guida dei fratelli Gracchi, il “partito popolare” – non un partito nel senso moderno, bensì un agglomerato di interessi, di famiglie, di gruppi sociali – si dette un programma di riforme dalla sostanza rivoluzionaria: porre un limite all’eccesso della proprietà privata, distribuire la terra ai proletari, estendere la cittadinanza romana alle popolazioni italiche, scuotere l’onnipotenza del ceto senatorio promuovendo sul piano politico il ceto cosiddetto equestre. La reazione della classe dominante a questa strategia riformatrice fu improntata per lungo tempo alla violenza più estrema; si sviluppò in tal modo la «guerra civile dei cento anni» (Lucien Jerphagnon) che dopo alterne vicende di conflitti sanguinosi e di instabili compromessi sfociò nella fine della repubblica e nella instaurazione del principato: un regime dispotico e “leaderistico” che tuttavia venne descritto come una repubblica rinnovata.
Nel corso del tempo il movimento rivoluzionario – quello dei Gracchi e dei tribuni della plebe, di Saturnino, di Sertorio, del controverso Gaio Mario – aveva finito con l’estinguersi: ridotto a non più che una dignitosa memoria storica, di slogan e di simboli, consegnò la sua eredità a singole figure di spicco che riuscirono ad assemblare un partito personale. La più eminente di queste personalità fu Giulio Cesare, il quale peraltro conservava nelle proprie radici familiari un legame con la tradizione popolare, essendo nipote di Mario. E sapeva ancora parlare per vecchi slogan («liberare il popolo dal dominio di una fazione», scrisse nel memoriale sulla guerra civile). Ma Cesare appariva ancora troppo amico della plebe (ingrediente essenziale del “cesarismo”, come lo sarà del “bonapartismo”) e troppo eversivo agli occhi degli oltranzisti conservatori, cosicché fu rovesciato da una congiura.

Tiberio e Gaio Gracco
I tempi non erano ancora maturi, ma presto lo divennero. Fu la volta del giovanissimo Ottaviano, il futuro Augusto, che nella sua storia personale non aveva nulla tranne l’essere stato adottato in maniera alquanto fortunosa da Cesare. Non era una personalità brillante come il predecessore, non possedeva carisma né capacità oratorie o guerresche.  Era dotato però di realismo, abilità di manovra e cinismo, e inoltre ebbe fin dall’inizio ottimi collaboratori (artefici delle sue vittorie militari, tessitori di alleanze politiche, suggeritori di un’accorta politica culturale). Vinse alleandosi con i conservatori come Cicerone e con i fedeli cesariani come Marco Antonio, poi sbarazzandosi degli uni e degli altri.  Vinse appropriandosi di valori reazionari come il patriarcato, la restaurazione religiosa, la netta separazione fra liberi e schiavi, e garantendo gli interessi di latifondisti e senatori di cui, in pari tempo, riduceva il potere politico. Fu agevolato dal desiderio di pace, dalla stanchezza e dalla rassegnazione che dilagavano in tutta la società. E le classi possidenti capirono la convenienza di affidarsi a un tale monstrum istituzionale presidiato dalle legioni. I nuovi proletari, i soldati, ricevettero pezzi di terra grazie a spaventosi espropri che colpirono i contadini. Paradossalmente, la legittimazione di Augusto poggiava sul conferimento a vita dei poteri dei tribuni della plebe, che erano stati a suo tempo la magistratura popolare per eccellenza. I pochi vecchi seguaci di Mario ancora viventi, e i cesariani di mezza età, si illudevano che con quel principe il loro partito fosse arrivato finalmente al potere dopo tanto soffrire. Ovviamente non era così. Se il senato era ormai addomesticato, anche i comizi e le assemblee popolari si avviavano a diventare una finzione. Un movimento epocale aveva cessato di vivere: la lotta per la libertà e per l’uguaglianza sarebbe rinata prima o poi in forme diverse, avrebbe percorso strade sconosciute in altre regioni del mondo. 

Pasquale Martino
2014