La
repressione del 186 a.C.
Tito
Livio, Ab Urbe condita XXXIX, 8.3-19
Traduzione
di Pasquale Martino
(in Tito
Livio, L’amore al tempo dei misteri, Stampa Alternativa, Roma, 1995)
Testo: Storie. Libri XXXVI-XL di Tito Livio, a cura di A. Ronconi e e B. Scardigli, Utet, Torino 1980.
Per il testo latino integrale con ampio commento storico-linguistico vedi: Livio, Antologia di passi tratti dai libri Ab Urbe condita, a cura di P. Martino, D’Anna, Messina-Firenze, 2009.
Per una introduzione storica al racconto, vedi L'affaire dei baccanali.
Immagini: affreschi dalla Villa dei Misteri a Pompei.
Per una introduzione storica al racconto, vedi L'affaire dei baccanali.
Immagini: affreschi dalla Villa dei Misteri a Pompei.
Le origini
[8]
Tutto ebbe inizio da un Greco sconosciuto.
Questi
venne in Etruria, non già come portatore di una delle arti che in gran numero,
per ornamento dello spirito e del corpo, il popolo più colto di tutti ha
introdotto presso di noi: era invece un sacrificatore, un indovino, e neppure
di quelli che impregnano di errore le menti con una religione manifesta,
professando pubblicamente sia il fine di lucro sia la credenza, ma un sacerdote
di cerimonie occulte e notturne.
Si
trattava di rituali iniziatici che in un primo momento furono comunicati a
pochi, in seguito cominciarono ad essere divulgati fra uomini e donne. Al culto
religioso si aggiunsero i piaceri del vino e dei banchetti, onde gli animi di
più persone venissero adescati. Il vino e la notte e la promiscuità fra maschi
e femmine e fra minori e adulti cancellarono ogni limite di pudore: il primo
effetto fu la depravazione di qualunque specie; ciascuno aveva a portata di
mano la soddisfazione del piacere cui era più incline. La violenza indistinta
su uomini liberi e donne non era peraltro l'unico crimine: dalla medesima officina
uscivano false testimonianze, contraffazione di firme e di testamenti,
delazioni; e così pure filtri magici e omicidi di parenti, eseguiti in modo
tale che a volte non restavano neppure i cadaveri. Molti erano i reati di
frode, ma i più di violenza. Questa però restava nascosta: le urla e lo strepito
di timpani e cembali coprivano la voce di chi invocava aiuto fra stupri e
eccidi.
Ebuzio e Fecennia
[9] Il flagello penetrò dall'Etruria in
Roma come una contagiosa pestilenza. Per tutta una prima fase restò celato: la
vastità dell'Urbe era meglio disposta a contenere e a tollerare simili orrori. Infine
una denuncia pervenne al console Postumio, nel modo appunto che qui di seguito
riferiremo.
Publio
Ebuzio, orfano di un cavaliere statale1, dopo la morte dei tutori
designati era stato allevato sotto la tutela della madre Duronia e del patrigno
Tito Sempronio Rutilo. La madre era devotissima al nuovo marito; d'altra parte
questi aveva amministrato la tutela in modo tale che non gli conveniva renderne
conto2: perciò bramava o di eliminare il pupillo o di tenerlo in
pugno con un ricatto. E l'unica via per traviarlo erano i baccanali.
La madre
chiamò dunque il ragazzo e gli disse che, quando egli era stato malato, lei
aveva fatto voto, non appena fosse guarito, di iniziarlo ai baccanali; obbligata
ora dalla benevolenza degli dèi a rispettare il voto, intendeva assolverlo.
Erano necessari dieci giorni di castità: il decimo giorno, dopo la cena e il
bagno purificatore, lo avrebbe condotto nel luogo sacro dell'iniziazione.
Orbene c'era
una prostituta piuttosto nota, la liberta Ispala Fecennia, la quale invero non
avrebbe meritato di fare quel mestiere: ma vi s'era adattata da quando era una
schiavetta, e anche dopo ch'era stata affrancata si guadagnava da vivere in
quel modo. Costei, vicina di casa di Ebuzio, aveva una relazione col giovane,
nient'affatto dannosa per le sostanze o la reputazione di lui: che infatti era
amato e desiderato senza secondi fini; cosicché, mentre i suoi lo rifornivano
poco e male in ogni cosa, era sovvenzionato dalla generosità di una puttanella.
Anzi, tutta presa da questa relazione, Fecennia era giunta a tal punto che, dopo
la morte del patrono, poiché non era sotto la potestà di nessuno, avendo
chiesto un tutore ai tribuni e al pretore, aveva fatto testamento e nominato
Ebuzio unico erede3.
[10] Tale era il legame d'amore fra i
due, né avevano segreti l'uno per l'altra. Stando così le cose, il ragazzo disse
alla donna, in tono scherzoso, di non meravigliarsi se per qualche notte si fosse
tenuto lontano dal letto di lei. Il motivo era religioso: per assolvere un voto
connesso alla sua guarigione,
voleva
farsi iniziare ai baccanali.
Appena la
donna sentì questo, esclamò turbatissima:
«Che gli
dèi non vogliano!»
E
aggiunse che piuttosto era meglio che tutti e due morissero; e imprecando
stornava minacce e pericoli sul capo di coloro che lo avevano consigliato a ciò.
Stupefatto
per queste parole e per il forte turbamento di lei, Ebuzio le disse di
risparmiarsi le imprecazioni: ché era sua madre a volerlo, col consenso del
patrigno.
«Dunque si
tratta del tuo patrigno – disse Fecennia – se proprio non devo accusare tua
madre! È lui che non vede l'ora di rovinare con questa azione l'onore, la
reputazione, l'avvenire e la vita tua!»
Il ragazzo
era tanto più sbigottito e chiedeva che significasse tutto ciò; allora
Fecennia, dopo aver invocato la grazia e il perdono degli dèi e delle dee, se
l'amore che aveva verso di lui la costringeva a rivelare cose su cui c'era l'obbligo
del silenzio, raccontò che lei da ancella, come accompagnatrice della padrona, s'era
introdotta nel luogo sacro dell'iniziazione; da libera invece non c'era mai
entrata. Sapeva che quella era la fucina di ogni corruzione; e le constava che
ormai da due anni non vi era stato iniziato nessuno che fosse ultraventenne.
Chiunque vi fosse stato introdotto veniva consegnato in mano ai sacerdoti,
quasi vittima predestinata; quelli lo scortavano nel luogo dell'iniziazione, il
quale risuonava tutt'intorno di ululati e di un concerto fatto di cembali e di timpani
percossi insieme, affinché non si udissero le grida di aiuto. Perciò Fecennia
pregava e scongiurava l'amante di scrollarsi di dosso quell'affare in
qualunque modo, e di non precipitarsi nel luogo dove gli sarebbero toccati
tutti gli orrori, da patire sulla propria pelle prima, poi da infliggere ad
altri. E non lo lasciò andare, prima che il giovane si fosse impegnato sulla
parola ad astenersi dal partecipare
a quei riti.
[11] Ebuzio tornò a casa. Quando la
madre portò il discorso su ciò che bisognava fare quel giorno e poi nei
restanti, per ottemperare ai riti sacri, il ragazzo rispose di non voler fare nulla
di ciò e di non avere alcuna intenzione di iniziarsi. Il patrigno assisteva al
colloquio. La donna subito si mise a gridare, che il figlio non era capace di
stare separato da Ispala Fecennia per dieci notti, e che, incantato dalle moine
e dai filtri di quella vipera, non aveva rispetto della genitrice né del patrigno
né degli dèi. Insultandolo la madre da una parte, il patrigno dall'altra, lo
cacciarono di casa con quattro schiavi4.
Il giovane
andò a stare presso la zia paterna Ebuzia e le raccontò il motivo per cui la
madre lo aveva cacciato da casa; quindi, per consiglio della zia, il giorno
dopo si fece ricevere in udienza riservata dal console Spurio Postumio Albino e
gli riferì la faccenda. Il console gli ordinò di tornare da lui dopo tre
giorni; poi, congedatolo, chiese a Sulpicia, donna autorevole e suocera sua, se
conoscesse una vecchia Ebuzia dell'Aventino5. Quella rispose che la
conosceva come donna onesta e all'antica. Postumio le disse che aveva bisogno di
incontrarla: mandasse perciò qualcuno a chiamarla.
Ebuzia,
convocata, si presentò a Sulpicia. Poco dopo apparve il console, come capitato
per caso; questi portò il discorso sul nipote Ebuzio. Alla donna vennero le
lacrime agli occhi, e si mise a commiserare il triste caso del ragazzo, che,
spogliato dei suoi beni da chi meno avrebbe dovuto, si trovava ora a casa sua,
scacciato dalla madre, perché da bravo giovane – che gli dèi lo proteggessero! –
non voleva essere iniziato a riti, a quanto si diceva, osceni.
Postumio appurò
così che Ebuzio era una fonte attendibile.
Congedata
Ebuzia, chiese alla suocera di far venire a casa sua la liberta Ispala Fecennia,
pure lei dell'Aventino, persona non ignota al vicinato; anche a lei, infatti,
voleva rivolgere alcune domande. All'annunzio di ciò Fecennia rimase turbata:
ché veniva invitata in casa di una donna nobile e autorevole senza sapere il
perché. Quando poi vide nel vestibolo i littori e il seguito del console6
e il console in persona, quasi svenne. L'uomo la condusse in un'ala riservata
della casa e, avvalendosi della presenza della suocera, caso mai riuscisse a
indurla a rivelare la verità, le disse di non agitarsi. Accettasse l'impegno
sulla parola da una donna come Sulpicia o da lui; confessasse a lui ciò che
avveniva nel bosco di Stimula7, durante i baccanali, nel rito notturno.
Come udìqueste
parole, la donna fu presa da tale paura e tremito in tutte le membra, che a
lungo non riuscì ad aprir bocca. Infine, rincuorata un po', disse che era stata
iniziata in tenera età, con la padrona cui faceva da ancella; ma da quando era
una donna libera – già da diversi anni ormai – non sapeva più nulla di ciò che
si facesse in quel posto. Per questo intanto, che non negava di essere una
iniziata, il console si mise a lodarla: ma ora, con la stessa sincerità, doveva
rivelare tutto il resto. Lei protestava di non sapere di più; e il console a dirle
che, se fosse stata smentita da un altro, certo non avrebbe ottenuto lo stesso
perdono o trattamento di favore che se avesse confessato spontaneamente: a lui
la cosa era stata denunciata da uno che l'aveva sentita raccontare da lei.
La deposizione di Fecennia
[13] La donna non ebbe dubbio, come in
effetti era, che fosse stato Ebuzio a tradire il segreto. Si gettò ai piedi di Sulpicia
e si mise a scongiurare lei per prima, di non volere che la conversazione di una
liberta con un amante si voltasse in un affare non soltanto serio, ma anche
mortale; affermava di aver detto queste cose al ragazzo per spaventarlo, non perché
lei sapesse qualcosa di concreto.
A questo
punto Postumio adirato le disse che lei credeva di stare ancora a scherzare con
Ebuzio suo amante, e non si rendeva conto di trovarsi nella dimora di una donna
di altissima autorità e a colloquio con il console. Sulpicia si dava a
sollevare la donna impaurita, e da una parte a esortarla, dall'altra contemporaneamente
a placare l'ira del genero. Infine, fattasi forza, dopo essersi molto lamentata
della perfidia di Ebuzio, che l'aveva così ringraziata delle sue grandi
benemerenze verso di lui, Fecennia disse che aveva molta paura degli dèi dei
quali avesse rivelato i misteri, ma molta di più degli uomini, che in quanto
delatrice l'avrebbero fatta a pezzi con le loro mani. Perciò supplicava
Sulpicia e il console di relegarla in una località fuori d'Italia, dove potesse
trascorrere sana e salva il resto della vita. Il console la invitò a calmarsi e
le assicurò che sarebbe stato suo impegno procurarle una abitazione sicura a
Roma.
Allora
Fecennia raccontò l'origine dei baccanali.
Al
principio il luogo di culto era stato frequentato solo da donne, né alcun maschio
vi era ammesso; c'erano tre giorni all'anno prestabiliti, in cui si celebravano
i riti di iniziazione, nelle ore diurne; sacerdotesse, a turno, erano elette di
norma le donne maritate. La sacerdotessa Paculla Annia, campana, aveva modificato
il culto dicendosi ispirata dal dio: per prima infatti aveva iniziato il sesso
maschile, nella persona dei suoi figli, Minio e Erennio Cerrinio, aveva mutato
il rito da diurno a notturno e aveva portato le cerimonie di iniziazione da tre
giorni all'anno a cinque giorni al mese. Da quando la cerimonia si svolgeva in
promiscuità fra maschi e femmine, con in più la licenza ch'è favorita dalla
notte, non c'era misfatto o colpa che venissero omessi; e le violenze
riguardavano più gli uomini fra loro che le donne. Chi non era disposto a
sopportare il disonore, chi si mostrava restio al misfatto, veniva immolato
come vittima. Non considerare nulla illecito, questa era la suprema religione
che li univa. Gli uomini, come fuori di senno, scuotendo il corpo a modo di
invasati deliravano; le donne, in veste di baccanti, correvano giù al Tevere e,
immerse le fiaccole nell'acqua, poiché in esse c'era vivo zolfo con calce, le
estraevano con la fiamma intatta. Alcuni uomini – dicevano – venivano rapiti
dagli dèi; ed erano quelli che essi facevano sparire calandoli con una macchina
nel fondo di occulte spelonche: ciò capitava a chi si rifiutava di affiliarsi o
di esser complice dei delitti o di farsi violentare. In tutto ciò era coinvolta
una massa enorme di persone, ormai quasi un secondo popolo, nel quale figuravano
uomini e donne della nobiltà. Negli ultimi due anni si era stabilito di non
ammettere nessun nuovo iniziato di età superiore ai venti anni: così si cercava
di attrarre la fascia di età più predisposta sia a commettere errori sia a
subire ignominie.
Primi provvedimenti repressivi
[14] Terminata la deposizione, la donna
cadde di nuovo in ginocchio e tornò a scongiurare che la si mandasse lontano.
Il console pregò sua suocera di liberare una parte della casa perché Fecennia
vi potesse traslocare. Le fu data una soffitta sopra l'abitazione, cui vennero
chiuse le scale esterne e aperto l'accesso rivolto all'interno; lì furono
trasferite tutte le cose di Fecennia compresa la servitù; anche a Ebuzio fu
data disposizione di andare ad abitare presso un cliente del console.
Quando ebbe
entrambi i delatori sotto controllo, Postumio portò la faccenda alla
discussione del senato, esponendo tutto con ordine, prima quanto aveva appreso
per denuncia, poi quanto aveva appurato con la sua personale indagine.
Allora
una grande paura pervase i senatori: dal punto di vista dell'interesse dello
Stato, temevano che quelle sette segrete e adunanze notturne comportassero
frode occulta o pericolo; e soprattutto, dal punto di vista privato, ciascuno
temeva per i suoi parenti, che ve ne fosse qualcuno implicato in quella colpa.
Il senato
deliberò pubblici ringraziamenti al console, che aveva condotto l'indagine con
scrupolo ineguagliabile e senza far nascere nessun allarme; quindi affidò ai
consoli una procedura straordinaria di inchiesta8 sui baccanali e
sui riti notturni in genere; dispose che i consoli tutelassero i denuncianti
Ebuzio e Fecennia e attirassero altri denuncianti con premi; che i sacerdoti di
quel rito, maschi o femmine, venissero ricercati non solo a Roma ma per tutti i
fori e i conciliaboli9, di modo che i consoli li avessero in
custodia; che si pubblicassero editti nell'Urbe e per tutta l'Italia, affinché nessun
iniziato ai baccanali partecipasse a riunioni o convegni a scopo rituale, né attuasse
alcunché di una tale cerimonia; e che prima di tutto fossero processati coloro
che avevano preso parte agli incontri clandestini a scopo di stupro e di
comportamento indecente. Questi furono i decreti del senato. I consoli poi
ordinarono agli edili curuli10 di ricercare tutti i sacerdoti del
culto in questione e di metterli agli arresti domiciliari11,
tenendoli a loro disposizione per l'inchiesta; gli edili plebei invece dovevano
vigilare onde il rito non fosse celebrato al chiuso. Ai triumviri capitali12
fu dato il compito di disporre posti di guardia per la città, sorvegliare che non
si tenessero riunioni notturne e prevenire gli incendi; i quinqueviri13
coadiutori dei triumviri su entrambe le sponde del Tevere dovevano
sovrintendere ciascuno agli edifici del quartiere di sua competenza.
Il discorso del console
[15] Mandati i magistrati ad assolvere
questi incarichi, i consoli salirono sulla tribuna dei rostri per l'assemblea popolare14
ch'era stata indetta. Il console Postumio pronunciò la solenne formula di
preghiera, come facevano di consueto tutti i magistrati prima di parlare al
popolo; poi cominciò il suo discorso.
«Mai a nessuna
assemblea, o Quiriti15, è stata non solo cosìadatta,
ma anche così necessaria questa solenne invocazione agli dèi: essa ha lo scopo
di ricordarvi che questi sono gli dèi che i vostri antenati hanno stabilito di
celebrare, venerare e pregare, non quelli che spingono le menti, sedotte da religioni
perverse e straniere e come pungolate dalle Furie, a commettere ogni crimine e
a soddisfare ogni libidine. A dire la verità, non so proprio quale aspetto di
questa situazione convenga tacere, né, d'altra parte, fino a che punto io debba
parlare apertamente. Se su qualche aspetto resterete all'oscuro, temo di dare adito
all'accusa di negligenza; ma, se metterò a nudo ogni cosa, temo di riversare
addosso a voi un terrore troppo grande. Qualunque cosa dirò, sappiate che sarà stato
detto meno di quanto corrisponde alla atrocità e vastità del fatto; noi
consoli procureremo che vi sia sufficiente a stare in guardia.
«Che i
baccanali si svolgano già da tempo in tutta Italia e, da poco, nella nostra
città in parecchi luoghi, sono certo che lo sapete non solo per sentito dire,
ma anche a causa dello strepito e delle urla che risuonano di notte per l'Urbe
intera; ma, a parte questo, sono convinto che ignoriate di che cosa si tratti
veramente. Alcuni credono che sia effettivamente un culto religioso, altri che
sia una festa consentita, una esuberante manifestazione di allegria e che,
qualunque cosa sia, riguardi poche persone. Ma a proposito della quantità delle
persone coinvolte, se vi dico che si tratta di molte migliaia, è inevitabile
che vi spaventiate, finché non aggiungerò chi siano e di che qualità.
«Innanzitutto
le donne sono in maggior numero, e quella fu la fonte primaria di questo male.
In secondo luogo, ci sono maschi somigliantissimi a donne, stuprati e
stupratori in massa, esaltati, allucinati dalle veglie, dal vino e dal
frastuono dei riti notturni. La congiura non ha forze fino a questo momento, ma
per l'immediato futuro ha grande potenzialità di crescita, perché il numero
degli affiliati aumenta di giorno in giorno.
«I vostri
padri stabilirono che neppure voi cittadini vi radunaste a caso e alla ventura,
ma solo quando il popolo armato veniva riunito fuori dell'Urbe per i comizi, e sul
Gianicolo veniva esposto il vessillo16, o quando i tribuni indicevano
i concili della plebe17 o qualcuno che ricoprisse una ben determinata
magistratura convocava una assemblea popolare. E dovunque si teneva una riunione
di massa, doveva esservi per antica norma anche un legale presidente18.
Ma che specie di riunioni credete che siano queste, le quali innanzitutto
avvengono nottetempo, e poi sono miste di uomini e donne? Se sapeste a quale età
vengono iniziati i maschi ne avreste non solo pietà, ma vergogna. Credete, o
Quiriti, che di giovani legati a questo giuramento si possa fare dei soldati?
Costoro, coperti dallo stupro di sé e degli altri, si batteranno con le armi
per difendere l'onore di mogli e figli vostri?»
[16] «Sarebbe tuttavia meno grave, se
fossero effeminati soltanto nei loro obbrobri (ché, appunto, principalmente su
loro stessi cadrebbe il disonore), se insomma la loro mano si fosse astenuta dal
delitto e l'intelletto dalla frode. Ma la verità è che la nostra repubblica non
ha mai conosciuto una piaga di tale entità, né estesa a più persone né a più implicazioni.
Qualsiasi atto di libidine, qualsiasi frode, qualsiasi crimine è stato commesso
in questi anni, sappiate che è nato da quel luogo di cerimonie e solo da esso.
Né finora costoro hanno partorito tutti i crimini che figurano nel loro
giuramento segreto. Fino a questo momento i danni dell'empia congiura si sono
limitati all'ambito privato perché essa non ha ancora abbastanza forze per sopraffare
lo Stato. Ma la piaga cresce e s'insinua ogni giorno di più: ed è già troppo
grande perché la sola sfera privata possa contenerla; già mira a colpire il
cuore dello Stato. Se non prendete provvedimenti, o Quiriti, fra pochissimo a
questa assemblea diurna, legittimamente convocata dal console, potrà seguirne
una notturna di pari dimensioni. In questo momento voi fate paura a loro: gli
individui isolati temono quelli riuniti tutti insieme in assemblea. Ma quando
voi vi sarete dispersi rientrando alle vostre case e ai vostri campi, e quelli
invece si saranno radunati, allora decideranno della loro salvezza e della vostra
rovina; allora saranno loro, tutti uniti, a dover far paura a voi, individui
isolati.
«Ciascuno
di voi deve sperare che tutti i suoi congiunti abbiano conservato sana la
mente. Ma se la libidine e la follia hanno trascinato via qualcuno in quel
baratro, ciascuno di voi deve giudicarlo non come uno dei suoi, ma come uno di
quelli con i quali ha congiurato per compiere ogni colpa e delitto. Non sono
del tutto certo che anche adesso qualcuno di voi, Quiriti, non cada nell'errore:
perché nulla è più ingannevole all'apparenza che una religione perversa. Quando
la potenza degli dèi è usata come paravento agli atti criminosi, sottentra nell'animo
un timore: che nel punire le male azioni degli uomini finiamo col violare
qualcosa d'una legge divina che vi sia frammisto. Ma da questo scrupolo
religioso vi liberano innumerevoli ordinanze dei pontefici, decreti del senato,
responsi degli aruspici. Più di una volta, al tempo degli avi, i magistrati
ricevettero il mandato di proibire lo svolgimento di riti stranieri, di vietare
a sacrificatori e indovini l'ingresso nel foro, nel circo, nell'Urbe, di fare
incetta di tutti i libri di profezie e darli alle fiamme, di sopprimere
qualunque regola sacrificale che non rispondesse alla tradizione romana. I
nostri uomini del passato,
esperti
conoscitori di tutto il diritto divino e umano, reputavano che nulla ha il
potere di dissolvere la religione più delle pratiche di culto svolte secondo un
rito non nazionale ma straniero.
«Ho ritenuto
che queste spiegazioni dovessero esservi date in anticipo, di modo che i vostri
animi non siano presi da un timore superstizioso, quando ci vedrete all'opera
nell'annientare i baccanali e nel disperdere le radunate sediziose. Tutto ciò faremo
con l'aiuto e secondo la volontà degli dèi; essi infatti, poiché mal sopportavano
che il loro nume fosse profanato da commistioni delittuose e dissolute, hanno
strappato alle tenebre queste pratiche portandole alla luce, e hanno voluto che
venissero scoperte non certo perché rimanessero impunite, ma perché fossero condannate
ed estirpate. Su questa materia il senato ha incaricato me e il mio collega di
una procedura straordinaria d'inchiesta. Per quel che sta a noi, eseguiremo il
nostro compito con solerzia; la sorveglianza armata dei vari punti della città nelle
ore notturne l'abbiamo affidata alle magistrature sottoposte; quanto a voi, è pure
giusto che, secondo i vostri doveri, qualunque sia la posizione in cui ciascuno
si troverà, vi adoperiate con solerzia per impedire che queste trame siano
fonte di pericoli e disordini.»
L’inchiesta, le condanne, i divieti
[17] Quindi i consoli fecero dare
pubblica lettura dei decreti senatorî e proposero di fissare un premio per chi
avesse condotto un colpevole davanti a loro o lo avesse denunciato anche
assente. Se qualcuno, denunciato, si fosse dato alla latitanza, i consoli gli avrebbero
fissato un dato giorno, entro il quale, se non avesse risposto alla citazione,
sarebbe stato condannato in contumacia. Se il denunciato fosse stato in quel momento
fuori dell'Italia, gli sarebbe stato concesso un termine più ampio per venire a
difendersi. Disposero con editto che nessuno vendesse o comprasse nulla per facilitare
la fuga, e che nessuno desse accoglienza o nascondiglio o prestasse aiuto con
alcun mezzo ai latitanti.
Appena
sciolta l'assemblea, un terrore di vaste proporzioni invase l'intera città; né le
mura e i confini di Roma valsero a contenerlo: i forestieri residenti nell'Urbe
spedirono lettere in giro, per informare del decreto senatorio, dell'assemblea e
dell'editto consolare, e quando queste pervennero a destinazione la paura si
propagò in tutta l'Italia.
Nella
notte che seguì la giornata dell'assemblea furono collocati dei posti di guardia
alle porte, e molti individui furono acciuffati e riportati indietro dai
triumviri mentre tentavano di fuggire; pervennero altresì molte denunce.
Alcuni, uomini e donne, si procurarono deliberatamente la morte. Si diceva che i
congiurati fossero oltre settemila fra maschi e femmine. Quanto ai capi del
complotto, si appurava che fossero Marco e Caio Atinio, appartenenti alla plebe
romana, Lucio Opicernio, falisco, e Minio Cerrinio, campano; costoro sarebbero
stati i primi mandanti di tutti i delitti e gli obbrobri, i supremi sacerdoti e
ordinatori di quella religione. Ci si adoperò perché fossero arrestati al più presto
possibile. Scortati al cospetto dei consoli, confessarono riguardo a sé e non
tardarono ad estendere la denuncia.
[18] Quanto al resto, la città si spopolò
al punto che, poiché molti cittadini perdevano le cause e i diritti19,
i pretori Tito Menio e Marco Licinio furono costretti, con autorizzazione del senato,
a differire di trenta giorni i dibattimenti, finché i consoli non completassero
i processi. Lo stesso svuotamento della città costrinse i consoli, dal momento
che a Roma non si presentavano e non erano reperibili quelli che erano stati denunciati,
a andare in giro per i fori e lìsvolgere i processi e amministrare la
giustizia. Coloro che erano stati soltanto iniziati al culto e, ripetendo le
parole del sacerdote secondo la formula rituale, avevano recitato le preghiere,
nelle quali era contenuto il nefando impegno giurato a compiere ogni delitto e atto
di libidine, ma in effetti non avevano commesso, né su di sé né su altri,
nessuna di quelle cose a cui s'erano obbligati con giuramento, questi li
consegnavano alla prigione. Ma se si erano macchiati di stupro o di omicidio,
di falsa testimonianza, di contraffazione di firme e di testamenti o di altre frodi,
li condannavano a morte. Furono più le esecuzioni capitali che le pene
carcerarie. In entrambi i casi fu coinvolto un grande numero sia di uomini sia
di donne. Le donne riconosciute colpevoli le consegnavano ai parenti o a coloro
che avevano la potestà su di esse, affinché quelli direttamente in sede privata
provvedessero contro di loro; se non c'era nessun idoneo esecutore della pena,
si provvedeva in sede pubblica20.
Fu quindi
demandato ai consoli di sopprimere completamente i luoghi dei baccanali dapprima
a Roma, poi in tutta l'Italia, eccetto il caso che vi fossero antichi altari o
una statua consacrata. Per il futuro si provvide con decreto senatorio che a
Roma e in Italia non si svolgessero baccanali21; chi avesse
ritenuto tali riti cosa consacrata e irrinunciabile, tanto da non poter
astenersene senza scrupolo di coscienza ed espiazione, aveva l'obbligo di
dichiararlo davanti al pretore urbano22, e il pretore doveva
consultare il senato; se fosse stata concessa una deroga – purché alla seduta fossero
presenti non meno di cento senatori23 – avrebbe potuto celebrare il rito
a condizione che non vi prendessero parte più di cinque persone, che non fosse
costituita nessuna cassa comune né vi fosse alcun sacerdote o presidente dei
riti.
[19] Congiuntamente a questo decreto
senatorio, ne fu approvato un altro su proposta del console Quinto Marcio, in
base al quale il trattamento di coloro che i consoli avevano usato come denuncianti
veniva affidato interamente alla responsabilità del senato, che ne avrebbe
discusso quando Spurio Postumio fosse rientrato a Roma dopo aver completato i
processi. Deliberarono inoltre di tradurre in ceppi, ad Ardea, Minio Cerrinio
campano e di preavvertire i magistrati ardeatini di tenerlo sotto sorveglianza
speciale, affinché non evadesse e neppure avesse l'opportunità di darsi la
morte. Qualche tempo dopo, Postumio rientrò a Roma; su sua proposta il senato
approvò un decreto concernente la ricompensa di Ebuzio e Fecennia, che avevano
il merito di aver denunciato i baccanali: i questori urbani avrebbero versato
dal tesoro centomila assi di bronzo a ciascuno dei due24; il console
si sarebbe accordato con i tribuni della plebe perché al più presto si facessero
latori di una proposta alla plebe, in base alla quale Publio Ebuzio venisse
assolto dall'obbligo del servizio militare, cosicché se non voleva, non facesse
il soldato né i censori gli assegnassero il cavallo pubblico25, e a Fecennia
Ispala fosse concesso il diritto di alienare e di consumare i propri beni, di
contrarre matrimonio fuori del suo grado sociale, di scegliersi il tutore, come
se glielo avesse assegnato un marito per testamento26, e di sposare
un cittadino nato libero, senza che ciò recasse pregiudizio o disonore a colui
che l'avesse presa in moglie; i consoli e i pretori in carica e i loro successori
si sarebbero impegnati a garantire alla donna protezione e sicurezza.
Questi
furono i decreti del senato, che vennero convertiti in proposta di legge alla
plebe ed eseguiti. Riguardo all'impunità e alle ricompense da assegnare agli
altri delatori, ci si rimise interamente ai consoli.
Note
1 L'ordine equestre comprendeva in origine cittadini ai quali
lo Stato forniva il cavallo (equus
publicus) perché servissero in armi nella cavalleria.
2 Il giovinetto Ebuzio stava per raggiungere l’età virile quando
avrebbe potuto chiedere il rendiconto al patrigno, il quale esercitava a tutti
gli effetti la patria potestà su di lui essendo venuti a mancare i tutori
designati dal padre.
3 Fecennia, in quanto liberta cioè ex schiava, era affrancata dalla
potestà (manus) di un padrone; ma, in
quanto donna – cioè, a Roma, soggetto privo di autonoma personalità giuridica –
aveva bisogno di essere sottoposta alla tutela di un uomo (il padre, il marito
o, per le liberte, il patronus) senza
del quale non poteva compiere atti legalmente validi, come per esempio fare testamento.
Fecennia, donna sola e quindi priva di tutela giuridica, chiese ai tribuni
della plebe e al pretore urbano (i magistrati a ciò preposti) l'affidamento a
un tutore per vedere convalidate le sue disposizioni testamentarie.
4 L'assegnazione di un seguito di quattro schiavi indica che l'allontanamento
del minorenne dalla casa del pater
familias è da considerare definitivo.
5 L'Aventino ospitava un importante e antico quartiere
popolare; vi sorgeva il tempio della cosiddetta triade plebea: Cerere, Libero e
Libera (Demetra, Dioniso e Core), il culto dei quali poteva costituire una base
per la penetrazione dei riti misterici.
6 I littori
erano la scorta dei magistrati dotati di imperium
cioè del potere di coercizione armata (i fasci littorî simboleggiavano appunto
questa autorità); il seguito del console (turba
consularis) era costituito da messi, banditori e portatori della sedia
curule (emblema, anche questa, delle massime magistrature repubblicane).
7 Stimula era una dea italica, che i Romani identificavano con
Semele madre di Bacco. Il bosco di Stimula sarebbe stato presso il Tevere, non
lontano dall'Aventino. Il console mostra di essere già ben
informato su alcuni dettagli concernenti i baccanali.
8 La procedura straordinaria (quaestio extra ordinem) conferiva ai consoli poteri speciali di inquisizione
e di arresto e la facoltà di intentare processi che potevano concludersi con la
sentenza capitale senza appello; per questo, come si vedrà subito dopo, si
ritenne opportuno sollecitare il consenso dell'assemblea popolare intorno al
decreto senatorio istitutivo della quaestio
(al popolo, infatti, facevano appello i condannati).
9 I fori erano i centri urbani, in cui si teneva il mercato e
si esercitava la giustizia (per l'appunto nel forum o piazza principale); i conciliaboli erano i punti comuni di
scambio e di incontro fra i centri minori.
10 Gli edili – curuli o plebei – erano i magistrati competenti,
fra l'altro, in materia di polizia urbana.
11 Il liberum conclave
era una forma di arresto domiciliare presso un influente cittadino romano, che
si faceva garante della custodia cautelare dell'imputato.
12 I triumviri capitales
(o nocturni) erano magistrati minori incaricati
della sorveglianza delle carceri, dell'esecuzione delle sentenze capitali e
della vigilanza delle strade urbane specialmente di notte.
13 I quinqueviri erano
coadiutori di polizia notturna, che si dividevano i quartieri di competenza.
14 La tribuna degli oratori nel foro romano era ornata dai
rostri presi alle navi degli Anziati dopo la vittoria del 338 a.C. La contio era una forma di assemblea
popolare che i magistrati convocavano per informare della situazione e delle
delibere prese dal senato; in questo caso essa si rende necessaria perché il popolo
non si opponga ai poteri speciali assunti dai consoli (nota 8).
15 Quirites (nome da
ricollegare a Quirinus, Romolo) è l'appellativo
con cui gli oratori si rivolgevano ai cittadini romani riuniti in assemblea per
assolvere funzioni civili (cioè non come milites, soldati).
16 Si
tratta dei comizi centuriati, originaria forma di assemblea armata (il popolo
era diviso militarmente in centurie), che si teneva nel Campo Marzio, fuori della
cinta cittadina; durante i comizi veniva insediata sulla rocca del Gianicolo una
guarnigione (la cui presenza era segnalata da un vessillo rosso), con il compito
di impedire che la città venisse attaccata dai nemici mentre il popolo era riunito
fuori le mura.
17 I
concilia plebis tributa erano un'altra forma di assemblea, i cui deliberati erano originariamente
validi per la sola plebe. Erano organizzati non per centurie ma per tribù. Sia i
comizi centuriati sia i concili della plebe avevano istituzionalmente funzioni
elettorali e deliberative, mentre la contio
era una assemblea popolare con finalità essenzialmente informativa ( nota 13).
18 L'assemblea
era presieduta dal magistrato (generalmente il console o il tribuno della
plebe) che l'aveva convocata avendone la facoltà.
19 Numerosi cittadini, avendo abbandonato Roma per paura di disordini,
non si presentavano in tribunale dove si sarebbero dovute celebrare le cause
ordinarie già fissate in calendario; di qui
l'opportunità di una proroga.
20 Come si è visto (nota 3), nella società romana la donna non
era soggetto giuridico a pieno titolo, sicché lo Stato non agiva direttamente
nei suoi confronti in materia penale, anche per delitti inerenti alla sfera pubblica,
ma delegava il procedimento alla famiglia (salvo che la donna fosse priva di tutore
o questi si rifiutasse di provvedere).
21 Il celebre senatus
consultum de Bacchanalibus (emanato il 7 ottobre del 186 a.C.) è riportato
su una copia in bronzo rinvenuta a Tiriolo presso Catanzaro e conservata a
Vienna (CIL I, 196, pp. 43 sgg.). La
sintesi offerta qui di seguito da Livio è ricalca il testo originale del
documento.
22
Il praetor
urbanus presiedeva alla giurisdizione relativa ai rapporti fra cittadini
romani.
23
Si voleva evitare, evidentemente, che
la deroga al divieto dei baccanali fosse decisa da pochi individui. Generalmente,
non esisteva un numero legale per le sedute del senato, tranne che in
circostanze particolari.
24 I questori erano i pubblici tesorieri. Centomila assi erano
la somma minima il cui possesso dava diritto ad essere iscritti nella prima
classe di censo.
25 L'esonero dal servizio militare (materia demandata al concilio
della plebe convocato dal tribuno della plebe: nota 17) è giustificato
probabilmente dall'opportunità di sottrarre Ebuzio a possibili rappresaglie; il
giovane deve di conseguenza rinunciare al cavallo pubblico che gli spettava
per diritto ereditario (nota 1): il beneficio del cavallo veniva confermato ma poteva
anche essere soppresso dai censori, i magistrati che periodicamente
aggiornavano la lista dell'ordine equestre come di quello senatorio,
espellendone chi si fosse macchiato d'indegnità.
26 Si è visto (nota 3) che Ispala Fecennia, non avendo un tutore,
ne aveva fatta richiesta ai magistrati; le viene ora concesso di scegliersene
uno di suo gradimento e di esercitare gli stessi diritti patrimoniali e
matrimoniali di una donna libera.